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Presidente Serenari, di cosa si occupa la sua O.N.G.?
e.qo è un’organizzazione non governativa italiana accreditata al Parlamento europeo che opera a Bruxelles per promuovere iniziative nei diversi campi delle nuove economie verdi; la missione è divulgare la conoscenza delle materie ambientali europee per incentivare percorsi di carriera nei green jobs.
Nel contesto europeo, ambito di riferimento della nostra ONG, si confrontano le varie interpretazioni di tutte le pratiche relative alla promozione di interessi di parte in contesti competitivi, volte ad orientare le scelte dei soggetti di pubblica autorità. Si tratta di pratiche di relazione, complesse e selettive, in grado di trasferire elevati valori immateriali attraverso lo scambio e l’accesso ai processi decisionali.
Noi operiamo e cerchiamo di intervenire, a nome degli interessi universali della cittadinanza, nelle questioni legate alla green economy.
Quali sono le nuove frontiere dei green jobs?
Il Legislatore europeo sta impiegando tutti gli strumenti politici e le risorse economiche a disposizione per incentivare l’affermazione dei cosiddetti colletti verdi, posizioni lavorative ispirate dai principi della green economy. È un fatto positivo che questo fenomeno stia modificando il mercato del lavoro e non soltanto quello delle tecnologie: green jobs sono lo strumento professionale istituito dal legislatore europeo attraverso il quale le persone, con le competenze professionali, contribuiscono alla realizzazione di questo epocale cambiamento “al verde”, verso una società più rispettosa, consapevole e sostenibile. Rappresentano dunque una declinazione operativa che sposta verso un terreno pratico e delle “cose da fare” una materia che spesso rischia di rimanere una discussione ideologica e generalista.
Le nuove competenze professionali devono essere fattori decisivi ed irrimandabili per una consistente svolta: la nostra ONG organizza ogni anno al parlamento europeo di Bruxelles una sorta di stati generali sui green jobs; un evento che coinvolge politici, studiosi e operatori di vari settori economici molto green oriented, quali l’energia, le costruzioni, i trasporti, ma anche la moda, il cibo e l’ICT . Occorre sottolineare che i green jobs non sono stati pensati per aprire una stagione di lavori volatili, di contrapposizione e velleitari, ma per stimolare il ricambio di competenze nei settori tradizionali. Vecchi mestieri quindi, ma con nuove sensibilità.
Verso quale direzione si sta muovendo la green economy?
Il termine green economy è usato senza nascondere le molte ambiguità della materia: è uno spazio di compromesso che ha il suo lato basso nella legalità, in ciò che la legge prevede, ed il suo vertice nel fondamentalismo ambientalista sognatore. Si tratta di una denominazione intermedia per cercare di far contenti tutti e, più precisamente, per promettere e realizzare un futuro che piacerà a tutti, cioè cittadinanza, politica e impresa.
Per natura gli economisti – anche quelli di provenienza umanistica come il sottoscritto – amano circoscrivere il perimetro delle argomentazioni in un ambito più facilmente osservabile, misurabile e descrivibile. La grandi questioni della green economy trovano impieghi e soluzioni nelle sottobranche di ciascun settore, ovvero nelle cosiddette green industry: il ragionamento generale e talvolta pretestuoso va scomposto in considerazioni pertinenti di tecnologia, di filiera e di occupazione. Un balzo nel piccolo, fatto di interessi sovente in conflitto tra loro, ovvero in competizione. Uno dei fattori universalmente riconosciuti come “efficientanti” è appunto l’adozione di soluzioni tecniche e tecnologiche migliorative: in tanti si prodigano a promuovere innovazioni ed applicativi, in nome della tutela dell’ambiente e della sopravvivenza della propria impresa. Io non voglio contestare principi di legittimità di chi ha intravisto un futuro imprenditoriale nella green economy. Voglio però ricordare che la realizzazione di alcuni ambiziosi progetti trascina quel fenomeno insorgente che nel mercato è già stato ribattezzato green bubble: l’effetto bolla di natura speculativa che rischia di abbattersi sui consumatori e sui prezzi dei “beni verdi”; nei peggiori casi si tratta di produzioni incentivate a vario titolo, estemporanee e fuori dalla coerenza industriale, che non generano alcun significativo risparmio di risorse ambientali e neppure effetto propulsivo lungo la filiera, ma solo dilatazione del prezzo e qualche ricavo individuale e di breve periodo.
Oggi purtroppo la green economy si è consolidata come un’opportunità di business per alcuni soggetti, ma non sembra ancora essere diventata un traino credibile per migliorare rispettivamente l’insieme delle tecniche di produzione e neppure, su larga scala, la sensibilità dei consumatori.
Quanto è convinta nelle istituzioni italiane l’idea della necessità di un cambio di rotta nella direzione della sostenibilità ambientale e quali i risvolti , se ce ne sono, nei programmi di sviluppo industriale nazionale?
Le istituzioni politiche non ignorano le criticità di queste tematiche; l’argomento della sostenibilità è prioritario in molti tavoli di lavoro, sia del governo centrale che del governo dei territori. Le direttive europee agiscono da propulsore e in Italia, come in tanti paesi dell’Unione europea, l’attenzione è costante e crescente. Credo che l’onere della prova resti però a carico dei soggetti privati: nelle intenzioni del legislatore europeo, la green economy non è soltanto una speranza della politica, ma deve diventare un riscontro tangibile del mercato. Deve funzionare su tre fronti, senza penalizzarne alcuno: tutela dell’ambiente, competitività dell’impresa, occupazione dei lavoratori. Sono tre paramenti già messi a dura prova dalla congiuntura economica, che devono trovare soddisfazione in un nuovo mercato. In altre parole sono le imprese il motore di questo processo, anche se non sono le uniche a beneficiarne. Il pericolo, come spesso accade, viene invece dalle derive interpretative: in nome della sostenibilità vengono pensate e realizzate le cose più disparate: “green” è un concetto ancora troppo “contendibile”, ovvero a libera interpretazione e a libera cattura. Gli standard che si vanno stabilendo ed imponendo non nascono dall’alto di dibattiti culturali e sociali, ma dal basso, cioè dal mercato: il vero rischio è che la sostenibilità diventi il business di chi avrà forza di imporre il proprio modello, in un rapporto sfavorevole tra qualità e redditività per la collettività.
Quali potrebbero essere le misure legislative in grado di incentivare lo sviluppo delle green economy?
Non credo che debbano essere proposte altre misure legislative, oltre alle tante che già ci sono: servirebbe forse ciò che serve in tutte le condizioni di lancio e rilancio di un settore economico. Snellire i tempi e le modalità di dialogo con la pubblica amministrazione, agevolare l’accesso al capitale ma, più di tutto, in ciascun comparto di industry, prestare ascolto alla voce del demone ovvero del “monopolista”; non si può pensare alla green economy come un’occasione di rivincita sul capitalismo corporativo, ma come una volontà di ripensare produzioni e consumi su larga scala. Alle notevoli difficoltà di rendere disponibili beni e servizi sostenibili, non possiamo aggiungere anche la soma di riequilibrare alcune tra le ingiustizie del pianeta. Mi rendo conto che il mio argomento è facilmente aggredibile e che ciascuna battaglia di progresso si porta dietro conseguenze e opportunità per pareggiare vecchi sospesi della storia, ma pure preferisco concentrarmi su considerazioni specifiche: per dare vita ad un ciclo autoportante, i prodotti green devono essere riconosciuti come sexy dai consumatori. I produttori devono poter contare sul green value: un euro investito nel processo ne deve rendere due nella vendita del prodotto verde.
In termini espliciti, è mia opinione che l’incentivo alla produzione diventi la linfa dell’imprenditore debole: molto meglio sarebbe investire sulla domanda, ovvero sull’informazione della cittadinanza. È il consumatore critico e consapevole che deve attirare il mercato verso di sé; sarebbe davvero il caso di non inseguire boutade filo-ambientalistiche, sconsiderate corse in avanti finanziate per parentela politica, immaginifiche e avanguardiste, magari in nome dell’estetica, della botanica e di un presunta equa socialità comunque mai riscontrata.
Lo scorso anno lei ha pubblicato insieme al membro dell’europarlamento Elisabetta Gardini il volume “Strumenti europei di politiche ambientali”: quali considerazioni può ricavare dal lavoro svolto?
Le politiche ambientali sono il terreno sul quale l’Europa cerca di costruire coesione interna: clima, energia e ambiente sono gli argomenti che innescano i più profondi momenti di confronto tra i potenti del mondo. Ci sarebbe bisogno di un’Europa più unita e più forte per sostenere politiche condivise ed efficaci; laddove la politica non è completamente capace di superare le divisioni, sono le iniziative dei singoli a tracciare le ipotesi di scenario. Come coautori ci siamo posti appunto il problema di capire quali fossero gli strumenti europei economici, giuridici e finanziari disponibili per la creazione di un nuovo mercato verde e soprattutto di comprendere quale tipo di consenso deve essere creato attorno alle singole iniziative per non vederle naufragare nel magma della burocrazia comunitaria. Abbiamo provato a tracciare per punti alcuni percorsi di fattibilità, partendo dall’osservazione di casi di successo di partner internazionali che operano negli stessi ambiti di intervento. Un lavoro di monitoraggio che ha consentito al gruppo di ricercatori di e-qo che hanno lavorato a questo progetto editoriale, di entrare nel merito delle problematiche di ciascun settore.
Quanto è diffusa nella società italiana la cultura dell’ecosostenibilità?
Probabilmente molto di più di quanto non sia il suo reale peso. Restano purtroppo molti quelli che si parlano addosso, autoproclamate icone di pensiero che profetizzano e usano il “verde” come estremo appiglio per costruire nuove opportunità di interlocuzione, forti della convinzione che forse, a forza di ripetersi, una cosa che oggi non c’è magari domani diventerà vera. Si è affermato comunque un principio della “quota verde”: l’ambientalista a KM zero piace davvero, molto più di chi come il sottoscritto lavora per costruire soluzioni su larga scala, convinto dall’idea di una sostenibilità non è intesa come valore statico, ma una competenza in corsa che genera e supera i suoi obiettivi: destinati ad essere sempre diversi, più alti e migliorativi. Una benefica evoluzione della specie delle tecnologie e delle loro applicazioni destinata a generare prodotti di nuova tecnica e capacità. In questo senso si tratta di una moltiplicazione del concetto di qualità: qualità interne del prodotto innovato e qualità esterne per il rispetto dell’ambiente. Questa è l’unica considerazione di tipo generale che mi sento di sottoscrivere: per il resto, le risposte sono molto più tecniche, economiche e sociali che non semplicemente ideologico-politiche. Risposte appunto di green industry.
Sandro Serenari – Economista, Autore e Presidente e-qo
Ilaria Rega, Sabino Merra