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Chiaravalle-progpart-passeggiata quartiere (5)Sono ormai anni che ci sentiamo ripetere che “l’Italia è in crisi”, che “la crisi è globale”, che forse “da questa crisi non si esce” e un certo lecito pessimismo ha iniziato ad impadronirsi anche dei più strenui sostenitori delle infinite possibilità del domani. Qualcuno inizia giustamente ad interrogarsi sulle possibilità di felicità in un presente che sembra essere votato al sacrificio in nome di un futuro che non si sa se e soprattutto quando arriverà.

L’economia saltella come un cd rigato, il welfare boccheggia e il modello di fine secolo, quello degli anni rampanti in cui siamo cresciuti (carriera, aumento del potere d’acquisto, aumento della produzione e dei bisogni esponenziale) si è rotto. Qualcuno sta provando ad aggiustarlo, da più di un decennio a dirla tutta e con risultati non molto incoraggianti, qualcun altro sta pensando che non vale la pena sprecare la propria gioventù ad inseguire un cliché di realizzazione esistenziale che non è più (forse “grazie a dio”) percorribile e sta pensando ad altro, sta progettando altro.

La casa è di sicuro uno dei grandi problemi. A maggior ragione per chi desidera progettare una famiglia, perché ci hanno insegnato che la famiglia ha bisogno di grandi spazi, camere ampie, possibilmente costruzioni autonome con garage e giardino privato, per contenere tutte le cose di cui una famiglia ha bisogno. “Occorre una taverna in cui poter organizzare le cene con gli amici, una camera dei giochi per i bambini, un ripostiglio per tenere gli attrezzi da lavoro e per la pulizia, un garage per auto e biciclette”. Se viviamo in contesti differenti ci sembra quasi di “doverci accontentare” e di sicuro una famiglia di quattro persone che vive in un mini appartamento non è considerata “socialmente realizzata”.

E se fossimo solo stati abituati a pensare così? Immaginate di poter eliminare dalla vostra casa oggetti che utilizzate assai di rado, ma che comunque potrebbero servirvi: la scala, la pulitrice, la cassetta per gli attrezzi, il trapano, l’occorrente per sturare i lavandini, il tavolo allungabile che usate solo quando arrivano gli zii dal Brasile… Immaginate di averli sempre a disposizione ma “fuori” da casa vostra e allo stesso tempo “dentro” casa vostra.

Poi provate ad immaginare di non avere una tavernetta in più da tenere pulita e riscaldata, ma di avere comunque uno spazio dove organizzare in tutta tranquillità una cena per 15 persone: dentro, ma anche fuori casa vostra. Pensate a tutti gli spazi veramente utili, alle cose che davvero utilizzate quotidianamente e vi sono imprescindibili: fatto? Ora immaginate che tutto il resto non vada “sacrificato” e non entri a far parte di un grande universo di frustrazioni e rinunce alla comodità (“Vorrei avere la macchina per pulire i vetri col vapore, ma costa parecchio e per usarla 3 volte l’anno… e poi occupa un sacco di posto”).

L’idea del cohousing nasce spontaneamente in ognuno di noi da spunti molto simili a questi. Ed è molto semplice: ognuno vive nel suo spazio privato (appartamenti di metratura più o meno contenuta) e… ampi spazi comuni in cui svolgere attività in gruppo o ciascuno – attraverso il sistema della prenotazione – per proprio conto. Il concetto è semplice: per vivere bene occorre il giusto equilibrio fra spazio comune e spazio privato.

Lo spazio privato di cui ognuno di noi necessita non è infinito e può essere contenuto se si utilizzano correttamente gli spazi comuni, soprattutto se si costruisce una rete di rapporti che favorisce lo scambio di beni e di “competenze”. In un condominio non occorrono 20 trapani, anche perché probabilmente non capiterà mai che tutti decidano di montare delle mensole lo stesso giorno alla stessa ora. Il trapano può essere dunque condominiale: esce di casa, ma rimane a disposizione.

Si possono anche mettere in comune l’auto (magari la seconda), le biciclette, gli attrezzi da giardinaggio… si crea comunità e si responsabilizzano le persone al rispetto dei beni in condivisione. Non finisce però qui: in molte realtà di co-housing le persone decidono di mettere in comune anche il loro tempo realizzando attività “condominiali”, svolgendo piccoli servizi per i co-abitanti (come ad esempio guardare i bambini del palazzo mentre le famiglie sono al lavoro o impegnate altrove), acquistando prodotti attraverso i gruppi di acquisto (un’unica spesa per tutto il condominio), mettendosi a disposizione per piccoli lavoretti (un inquilino potrebbe saper riparare un tubo che perde e magari, qualche giorno più tardi, aver bisogno di un dolce da portare a scuola per il compleanno del figlio, un’anziana signora potrebbe cercare qualcuno che le porti in casa le casette dell’acqua e ricambiare facendo l’orlo ai pantaloni della vicina).

Ovviamente vivere in una realtà del genere è stimolante, gratificante, ma anche diverso da come siamo abituati. Per decenni siamo stati educati al principio dell’individualismo spinto e abbiamo perso l’abitudine al senso di condivisione dei beni, degli spazi e del tempo con gli altri. Gli stabili in cohousing però, non a caso, sono più vivi e curati: le persone trattano davvero gli spazi comuni come se fossero i loro, perché… sono i loro! Allo stesso tempo i rapporti sociali non si allentano, i vicini si conoscono e possono aiutarsi reciprocamente in un sistema di welfare in grado di sopperire a quelle che ormai sembrano essere carenze ineliminabili del nostro sistema.

Nulla di nuovo: lo facevano già i nostri nonni nelle corti agresti e nei condomini con la portineria sociale, ma questo grande ritorno non sembra essere un “passo indietro” rassegnato rispetto alla crisi, quanto un modo per sfruttare a pieno le possibilità di una vita di comunità più sentita.

Marco Bolis