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Intervista a cura di Ilaria Rega

bertazzi_johnOggi intervistiamo, John Bertazzi, 52 anni, sposato, con una figlia, candidato alle amministrative milanesi.

Imprenditore edile da sempre, con una piccola azienda che era familiare e che pian-piano, con il tempo, ha ingrandito, fino a farla diventare un consorzio e un piccolo agglomerato di società immobiliari, di ristrutturazione e costruzione. Si occupa da anni di associazionismo, è stato dirigente del consiglio di presidenza di ANCE Milano ed è vicepresidente nazionale dell’Associazione Nazionale Costruttori Edili, già presidente del CONFIDI delle province lombarde. All’inizio di quest’anno, con l’avvicinarsi delle elezioni comunali milanesi, gli è stato proposto di dare una mano al candidato sindaco di ciò che una volta si sarebbe chiamato il centro-destra, Stefano Parisi, entrando nella sua lista civica, quindi, ci tiene  sottolineare: completamente al di fuori dei partiti e dalle logiche politiche. Ha ritenuto opportuno dare il suo piccolo contributo alla città e ad un’idea di città diversa da quella degli ultimi anni.

Come la sua esperienza lavorativa potrà arricchire l’attività politica?

Grazie alla mia esperienza lavorativa posso ipotizzare un governo della città che sia più attento alle imprese, ai bisogni dello sviluppo imprenditoriale e alle logiche di flessibilità e di trasformazione dell’urbanistica, che vedo in questi anni estremamente ideologizzata, da un lato, e completamente bloccata da logiche, che nulla hanno a che fare con la stessa urbanistica o con l’architettura, dall’altro.

Venendo ad aspetti più specifici penso che ci sia bisogno di lavoro, penso che ci sia bisogno di sostenibilità e penso che ci sia bisogno di una qualità del vivere migliore. Bisogna dare atto che Milano è stata protagonista di molti cambiamenti, ma nello stesso tempo è come se si fosse fermata. Il mio impegno e la mia volontà è di dare una mano e di continuare su una strada che i predecessori di Pisapia avevano correttamente iniziato e che ha dato negli ultimi due anni i suoi frutti: basti vedere le trasformazioni urbanistiche molto importanti di CITYlife, Porta Nuova, la Darsena e quant’altro.

Detto questo, la sostenibilità e il lavoro si declinano in una trasformazione della città che è continua, non può essere irrigimentata da logiche del tipo “facciamo questo in quella zona perché oggi reputiamo che sia importante fare questo”, per i più svariati motivi. Bisogna dare spazio all’iniziativa privata e per fare ciò essa deve trovare dei luoghi dove essere espletata. Oggi questi luoghi possono essere un capannone industriale, dei loft, degli appartamenti, degli uffici; possono essere qualunque cosa. Per me l’importante è un’idea di urbanistica in continua trasformazione, che segua i bisogni della città e dei cittadini, di chi lavora e non il contrario. Quindi, come dire: i servizi che vanno alla domanda e non la domanda che va ai servizi, perché i servizi sono stati decisi preventivamente da qualcuno, allocati nel centro, piuttosto che nella periferia.

Se dico sostenibilità, Lei cosa mi dice?                                                          

Beh, la sostenibilità è la base della qualità del vivere, quindi, secondo me, è importante che, essendo Milano una città, come spesso accade in Italia, estremamente ‘costruita’, perché ci sono nuclei millenari di città, la necessità è quella di non consumare più nuovo suolo, non andare a incidere sul verde o i giardini, o magari i parchi, ma cercare di trasformare l’esistente.

Come? Partendo dai condomìni, si parla di case che già esistono, quindi la necessità è quella di una riqualificazione del costruito, ma in ottica di flessibilità: se oggi esiste una casa domani potrà esserci un ufficio, possono esserci usi diversi all’interno di uno stesso contenitore. E’ importante però, a mio avviso, riqualificare, nel senso di far diventare gli immobili meno energivori, migliorare la loro classe, non solo energetica ma anche acustica, insomma fare tutti gli interventi che oggi sono possibili, oltretutto anche a costi non elevatissimi; bisogna, però, fare un’alleanza di scopo tra il pubblico e il privato. Il privato deve mettere oggettivamente delle risorse, deve, però, trovare nel pubblico qualcuno che l’aiuta e non gli metta il bastone tra le ruote quando vuole fare qualcosa e che nello stesso tempo magari lo aiuti fiscalmente, lo aiuti con dei piccoli incentivi economici, lo aiuti cercando di dargli la possibilità, per esempio, di utilizzare gli spazi dei ponteggi per pagarsi gli oneri della ristrutturazione. Oggi assistiamo esattamente al fenomeno contrario, pur di “non fare”, si cerca di bloccare qualsiasi iniziativa e questo per me è deleterio, perché ingessa il sistema, qualunque iniziativa di lavoro. Quando non c’è lavoro, volendo allargare l’idea di città, non c’è più l’integrazione, integrazione di cui noi, invece, ne abbiamo fortemente bisogno. Parlo da imprenditore edile, che sa quanto è importante il lavoro degli immigrati, perché i miei cantieri sono pieni di gente che ha voglia di lavorare, certo devo dare a loro un lavoro corretto, un lavoro ben pagato e un lavoro che sia gratificante e che quindi permetta loro di integrarsi nella società. Se tutto ciò non è possibile, perché ci sono delle regole fisse, è una città che è destinata a rifermarsi un’altra volta.

E sulla sicurezza dell’immobile?

Abbiamo assistito a disastri immani come quelli dell’Aquila o di altre parti dell’Italia, per scelte urbanistico-architettoniche drammatiche, che hanno portato a non considerare la sicurezza come il bene primario di chi abita una città o comunque il luogo. Vi sono stati ambiti di ristrutturazione che non tenevano conto della fragilità di un manufatto che magari aveva 50 anni, oppure delle nuove costruzioni o ristrutturazioni che non tenevano conto di una zona sismica estremamente importante. Milano da questo lato ovviamente è fortunata, perché è in una zona oserei dire estremamente sicura e di poco rischio-sisma, però anche qua abbiamo le nostre fragilità, basta vedere il nord di Milano, dove, tutte le volte che ci sono delle grandi piogge esondano i fiumi. Perché esondano? Perché negli anni dove non si teneva conto di queste cose li abbiamo ‘intubati’: li abbiamo costretti in un alveo troppo piccolo, un alveo che non era il loro e queste ormai sono cose fatte, dalle quali non si può più tornare indietro, perché abbiamo costruito sopra una città. Quello che si può fare sicuramente son delle vere ristrutturazioni intendendo dei concepimenti di una città diversa e che permetta quindi il ritorno a una logica natura/uomo nella quale ci sia un equilibrio. Milano può dare anche qua l’esempio: dal punto di vista dell’esondazione dei fiumi può realizzare – certo con investimenti pubblici, perché non hanno ritorno economico – a nord della città, delle vasche di contenimento, insomma tutte quelle cose che possono portare ad evitare di assistere a manifestazioni drammatiche. Dal punto di vista, poi, degli edifici, sicuramente bisogna ottenere una riqualificazione energetica elevata, stando attenti, però, alla sicurezza degli stessi immobili, obbligando i costruttori a darsi delle regole. Questo, in maniera tale che, nell’ambito della ristrutturazione di interi fabbricati, ci si adegui a delle regole nuove che devono tener conto primariamente della sicurezza di chi poi abiterà quei manufatti.

Sintetizzando, dunque, l’idea della continua trasformazione della città necessita che non ci siano delle regole fisse, ma che queste vadano di pari passo alle trasformazioni delle città, perché questo vuol dire più lavoro, più sicurezza e più integrazione.